Maria De Mattias, nacque a Vallecorsa (FR) il 4 febbraio 1805. Colpita dall'immagine di Gesù, Agnello Immolato, dopo un'esperienza profonda di preghiera e di riflessione, nel 1834 fondò la Congregazione delle Adoratrici del Sangue di Cristo in Acuto, piccolo paese di montagna vicino Roma. Subito ella iniziò ad andare in diversi paesi dell'Italia centrale e, con le prime seguaci, diede inizio a comunità religiose dedite all'evangelizzazione, alla promozione della persona mediante scuole, ritiri spirituali, catechesi, accoglienza dei più poveri…
Maria seppe abbracciare ogni sofferenza e difficoltà con animo aperto e pronta a dare anche la sua vita "per il caro prossimo". Formata alla conoscenza di Gesù Cristo e all'esperienza mistica, trascinava uomini e donne, a cui si rivolgeva con la predicazione evangelica, spesso nelle Chiese e talvolta nelle piazze dei piccoli centri, meravigliando e entusiasmando tutti.
Durante la sua vita scrisse migliaia di lettere, indirizzate a suore, vescovi, personalità politiche. Esse rispecchiano la sapienza della sua anima e della sua sensibilità femminile, come la sua profonda ricchezza interiore (Maria De Mattias, Lettere, a cura di Angela Di Spirito e Luciana Coluzzi, Roma 2005, voll. 1-5).
Questa eredità umana e spirituale è tuttora fonte d'ispirazione e nutrimento per le Adoratrici del Sangue di Cristo e per quanti si accostano a questa preziosa lettura.
Maria De Mattias morì a Roma il 20 agosto 1866. Il 1° ottobre 1950 Pio XII la dichiarò Beata.
Il 18 maggio 2003 Giovanni Paolo II riconobbe e decretò la sua santità.
Oggi circa1.400 Adoratrici lavorano in tutti i continenti, continuando l'opera della Fondatrice in diversi servizi apostolici con spirito di abnegazione e di gratuità.
Ordinato sacerdote il 31 luglio 1808, intensificò l'apostolato fra le classi popolari fondando il primo oratorio in Santa Maria in Pincis e specializzandosi nella evangelizzazione dei "barozzari", carrettieri e contadini della campagna romana, che avevano i loro depositi di fieno nel Foro Romano, chiamato allora Campo Vaccino. Per la Chiesa, intanto, correvano tempi duri: nella notte dal 5 al 6 luglio 1809 Pio VII fu fatto prigioniero e deportato. Il 13 giugno 1810 Gaspare rifiutò il giuramento di fedeltà a Napoleone e venne condannato all'esilio e poi al carcere, che sostenne con animo sereno per quattro anni. Tornato a Roma nei primi mesi del 1814, dopo la caduta di Napoleone, mise le sue forze e la sua vita al servizio del papa. Pio VII gli diede l'ordine di dedicarsi alle missioni popolari per la restaurazione religiosa e morale.
Giovanni Merlini nacque a Spoleto il 28 agosto 1795 da un pasticciere di lontane origini messinesi e da una casalinga umbra piissima che, in ossequio ai desideri del marito conduceva una vita ritirata, tutta casa e chiesa.
Il ragazzo capì presto che doveva essere sacerdote e lo divenne, anche superando alcune resistenze del padre, che vedeva in lui l’uomo ideale per continuare il casato, l’azienda familiare e non solo.
Divenuto sacerdote comprese di essere giunto solo all’inizio di un cammino nuovo per diventare sempre più sacerdote, sempre più immagine di Cristo. Per il momento doveva cominciare con l’essere una guida sicura per i giovani del ginnasio che il vescovo gli aveva affidato.
Per essere migliore educatore decise di recarsi a San Felice di Giano, dove aveva saputo che Gaspare Del Bufalo avrebbe dato un corso di esercizi al clero della diocesi. Giano, precisamente l’abazia di San Felice, era il luogo dove da cinque anni funzionava una Casa di Missione, la cui apertura aveva segnato l’inizio della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Ci andò con un compagno sacerdote e fu per tutti e due l’incontro della vita.
Durante il corso di esercizi a San Felice i progetti dei due sacerdoti di Spoleto subirono un terremoto spirituale. In tempi diversi divennero entrambi Missionari del Prez.mo sangue. Don Giovanni Merlini, in particolare, ebbe un ruolo fondamentale nell’assetto della Congregazione perché don Gaspare, in continua peregrinazione, gli passava le questioni più spinose. Contattato da Maria De Mattias a Vallecorsa nella quaresima del 1824, due anni dopo la missione predicata da Gaspare Del Bufalo, prese a dirigerla con amorevole meticolosità, così come si calò in tutte le problematiche del neonato istituto delle Adoratrici del Sangue di Cristo fino alla morte di lei.
Nominato Rettore generale dei Missionari del Preziosissimo Sangue, rimase per 25 anni ineguagliabile padre per tutti con impareggiabile saggezza e prudenza, aumentando le fondazioni in Italia e all'estero.
Fu così cercato e benvoluto dalla gente che anche il Papa Pio IX che ammirava le sue virtù gli chiese spesso consiglio. Nel 1849, ascoltando le suppliche ardenti di don Giovanni, il Papa estese a tutta la Chiesa la festa del Preziosissimo Sangue di Gesù. Morì investito volontariamente da una diligenza il 12 gennaio 1873 a Roma. L'ultima buona azione di don Giovanni fu quella di perdonare il vetturino che l'aveva travolto.
La sua salma, riposa accanto a quella del suo maestro S. Gaspare nella Chiesa di S. Maria in Trivio (a fianco della fontana di Trevi) a Roma.
La Chiesa ha dichiarato eroiche le virtù di Giovanni Merlini e lo onora tra i venerabili.
Nel mese di Maggio si è ufficialmente riaperta la sua causa di Beatificazione e Canonizzazione, secondo l’iter canonico essendosi verificato un caso di presunta guarigione a Benevento (Italia) che si attribuisce all’intercessione del nostro Venerabile Merlini.
Serafina Cinque, Noemi al battesimo, nacque il 31 gennaio 1913 a Boca das Garças, villaggio sul Rio delle Amazzoni (Brasile), da genitori originari di Sapri (Salerno – Italia).
Seconda di dodici figli, a causa della sua salute molto precaria, visse piuttosto protetta e un po’ “viziata”. A undici anni l’austero papà l’affidò alle cure delle suore Dorotee, a Manaus, perché venisse educata e istruita.
Preparata dalle suore alla prima comunione, Noemi, in quello stesso giorno, decise imprevedibilmente di essere tutta di Gesù. I genitori non le permisero di diventare subito suora. Ella, allora, lavorò intensamente come catechista dei bambini, dei giovani ed adulti nella sua parrocchia di Manaus e, per poter aiutare i malati poveri, prese anche il diploma di infermiera.
Nel 1946, a 33 anni, entrò tra le Suore Adoratrici del Sangue di Cristo che, provenienti dagli Stati Uniti, avevano aperto una missione in Amazzonia.
La povertà che la circondava toccava profondamente il suo cuore e non le permetteva di chiudere gli occhi, anzi, la faceva lavorare instancabilmente. Sollecitava i giovani e le ragazze a studiare per avere un futuro migliore, correva al capezzale delle partorienti per salvare madri e bambini; accoglieva malati di ogni genere per curarli con medicine che spesso ella stessa preparava e, soprattutto, preparava altre persone perché l’aiutassero e dessero continuità al suo lavoro.
Nel 1972, anno in cui venne inaugurata la strada Transamazzonica, miraggio per tanti poveri del Brasile – Suor Serafina venne inviata ad Altamira, una cittadina nel cuore della foresta, per insegnare nel turno serale dell’Istituto Maria De Mattias e per dirigere l’ambulatorio diocesano. Qui Suor Serafina venne in contatto, in modo ancora più crudo, con la più grande miseria: quella già esistente, assommata a quella che la Transamazzonica stava generando. Si adoperò con ogni mezzo ad aiutare quelle donne che, giunte dalla foresta in città per dare alla luce la loro creatura, non trovavano alcun punto di appoggio. Accoglieva nel piccolo ambulatorio anche i malati provenienti dall’interno della foresta. La sua delicata insistenza presso il vescovo, mons. Erich Kräutler, già sensibile al problema, fece si che questi costruisse una casa di accoglienza: suor Serafina la chiamò: “Casa della Divina Provvidenza”, perché si sarebbe dovuta mantenere con la generosità della gente della città di Altamira e dei contadini della foresta.
Era il 1984. La casa della “Divina Provvidenza” per le gestanti e il Rifugio S. Gaspare, costruito in seguito per i malati, raggiunsero ben presto le 100 presenze. Per la gente Serafina si fece mendicante ogni giorno, andando di porta in porta, e poté così sperimentare “come Dio è buono”, espressione diventata il suo motto. Per questo fu chiamata la “Madre Teresa di Altamira” e la stampa nazionale la definì "l’Angelo Bianco della Transamazzonica".
Lo scopo dell’opera di Suor Serafina, però, non fu solo l’assistenza sanitaria, ma anche la formazione umana, civile, culturale e religiosa degli ospiti nella “Casa Divina Provvidenza”. Pronta all’aiuto immediato, guardava però anche al futuro di queste persone: una vita dignitosa ed autonoma.
Consumata da un cancro alle ghiandole linfatiche, morì a Manaus il 21 ottobre 1988. Per lei è iniziato il processo di canonizzazione e la Chiesa l’ha dichiarata venerabile nel gennaio 2014.
È la storia di M. Joel e Shirley Kolmer, Ages Mueller, Barbara Ann Muttra, Kathleen McGuire, Adoratrici del Sangue di Cristo, “martiri della carità” in Liberia. Queste donne hanno mostrato fino in fondo cosa significhi avere attenzione per il “caro prossimo”.
Lungo gli anni da loro trascorsi in Liberia quel “caro prossimo” si presentava nello studente che poneva domande, nel rifugiato in preda al terrore, nel paziente sofferente, nell’orfano rifiutato.
Erano gli anni novanta, in piena guerra civile, esse si prendevano cura di tutti, nelle aule scolastiche e nei centri di distribuzione. Confortavano e distribuivano bicchieri di acqua fresca a chiunque si trascinava faticosamente verso la loro casa di Gardnersville: una processione di profughi, originata dal conflitto che tra il 20 e il 23 ottobre del 1992 avrebbe falciato le loro esistenze interamente donate.
In una delle nazioni africane più piccole e meno sviluppate, esse avevano aperto scuole parrocchiali, e dispensari, per provvedere all’alfabetizzazione, alle emergenze sanitarie e a combattere la malnutrizione.
Non avevano esitato a raggiungere villaggi poverissimi per medicare le persone inferme e istituire scuole di base.
Gli inizi non erano stati facili. Avevano dovuto affrontare la carenza di acqua potabile, il fastidio provocato da molti insetti tropicali, il fenomeno dei “ladri” che si davano ad una razzia continua e sistematica. Avevano dovuto combattere contro la malaria e l’epatite, che debilitavano la loro salute fisica. Ma nulla le aveva fermate. Anzi, sembrava che le difficoltà stimolassero l’entusiasmo e la fantasia.
E quando si trovarono in mezzo al turbine della guerra civile, mentre si scatenavano l’odio, le ruberie, le uccisioni, non pensarono a se stesse, alla propria incolumità e sicurezza.
Cinque donne, così diverse tra loro, accomunate da una stessa “prontezza” nel donarsi e nel servire.
Due di loro furono uccise mentre stavano raggiungendo con la jeep di primo soccorso un ammalato. Le altre tre furono raggiunte da colpi di arma da fuoco nella loro casa.
Riferendosi al loro sacrificio Papa Giovanni Paolo II le chiamò martiri della carità.
Nasce l’8 marzo 1907 a Bosanska Gradiška, da Ivo e Katica. Emette i primi voti il 15 agosto 1926, i voti perpetui il 15 agosto 1931. Ha lavorato nella scuola come maestra. Il 18 aprile 1944, nel pieno degli orrori della seconda guerra mondiale, lascia la Congregazione con dispensa dell’Ordinariato diocesano, Can 81. Dopo aver lasciato la comunità Josipa è vissuta a Ruševo (vicino Slovonska Požega) presso una famiglia e ha lavorato in parrocchia.
Secondo le diverse testimonianze raccolte diversi anni dopo la sua morte, insegnava catechesi ai bambini e lavorava con i giovani e con gli adulti.
La gente del posto la considerava sempre suora e le era legata da grande stima e affetto.
A conclusione della guerra, con l’avvento del comunismo iniziò, nella terra già tanto martoriata, un periodo di persecuzione per la Chiesa.
Suor Josipa fu messa in prigione. Rientrata a Ruševo dopo la prigione, è stata presa, maltrattata e uccisa. Non si conosce il giorno preciso della sua uccisione, ma era l’inizio del mese di ottobre del 1946. Per diversi anni la gente non parlò dell’accaduto, per paura, e non si sapeva dove era stata sepolta. Il suo corpo fu trovato qualche anno dopo vicino a un fiume e portato nel cimitero. Tutto questo di nascosto. Sulla sua tomba non fu messo alcun segno di riconoscimento, per evitare che fosse ritrovata e ulteriormente vilipesa. Dalle diverse testimonianze raccolte dopo la caduta del comunismo, negli anni Novanta, si conoscono molte notizie, anche dettagliate, che evidenziano quanto bene abbia fatto e quanto la gente le volesse bene. Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi articoli su giornali, che raccontano la vita e la morte di sr Josipa.
Il suo nome è riportato nella monografie dei martiri croati della Seconda Guerra Mondiale.
Nata il 10 febbraio 1910 a Fojnica da Aleksa e Jozefina. Ha emesso i primi voti il 15 agosto 1929, i voti perpetui il 18 agosto 1934. Quando dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1946, i comunisti espropriarono tutte le scuole e le case delle suore, Eulalia, come anche tante altre suore, per sopravvivere andò in cerca di abitazione e di lavoro. Insieme con Josipa Nevistić si fermò in Croazia, nella zona di Slavonska Požega, e visse e lavorò a Pleternica. Era maestra e suonava l’organo. È stata maltrattata e uccisa il 1 marzo 1947 e il suo corpo buttato nel fiume Orljava.
Le testimonianze raccolte raccontano che prima di ucciderla le tagliarono le dita, chiedendole beffardamente di suonare.
Il suo corpo straziato su trovato il 25 marzo, dopo lo scioglimento della neve, e fu sepolto nel cimitero. Queste due nostre sorelle, accomunate non solo dal carisma ASC ma dalla persecuzione e dalla morte violenta, sono considerate da sempre, per la gente del posto, martiri della fede.
È importante sottolineare che il loro ricordo è rimasto vivo nel popolo, in modo particolare quello di Josipa, nonostante la proibizione di parlare delle persone scomparse, cosa considerata come reato, punito anche con la morte.
Tutta la storia è venuta alla luce solo dopo il 1990.
Teresa Francesca nacque a Ceccano (FR) il 27 novembre 1817, primogenita dei figli del dottor Gioacchino e di Maria Valenti.
Incontrò per la prima volta MDM nel novembre 1840, nella sosta che fece a Patrica nel viaggio a Vallecorsa, dove si recava ad aprire la scuola. Al suo rientro in Acuto Teresa la seguì con Carolina. Emise la professione il 1 novembre 1857. Donna dal temperamento contemplativo, amò grandemente l’Istituto e ne assorbì pienamente il carisma. Per le sue capacità fu incaricata di aprire diverse nuove comunità: Pescasseroli, Morino, Sgurgola, Roma San Giovanni, Piglio, Narni … Teresa accompagnò MDM nel suo ultimo viaggio missionario a Capranica e le rimase vicina fino alla morte. Fu consigliera generale di Carolina Signoretti. L’affetto per MDM e la fedeltà al carisma la mise in conflitto con l’autorità ecclesiastica che volle per l’istituto l’emissione dei voti perpetui. Né Teresa, né le sorelle Carolina e Rosa seppero accettare questa decisione, tanto da preferire la separazione. Una pagina certamente dolorosa, ma che nulla toglie alla sua statura di fedele e convinta seguace di MDM. Morì a Roma il 27 luglio 1896, in Via Muratte, 70.
Come mai il suo nome non compare nel registro delle Adoratrici defunte? È una pagina di storia dolorosa e triste. La congregazione delle Adoratrici si era sviluppata senza voti.
Nel 1878, a dodici anni dalla morte della Fondatrice, fu emesso dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari un decreto che concedeva la sospirata approvazione dell’istituto, ma al tempo stesso esigeva la professione dei voti.
Sorgeva un problema serio: con l’introduzione dei voti l’Istituto poteva dirsi lo stesso fondato a Acuto nel 1834?
Tutto il consiglio generale, del quale facevano parte Carolina Signoretti quale superiora generale, Carolina e Teresa De Sanctis quali consigliere, fu contrario alla innovazione. Allora la Signoretti venne invitata dalla Sacra Congregazione a dimettersi spontaneamente ed ella lo fece.
La nuova superiora generale, suor Caterina Pavoni, anche se era contraria ai voti, visto che la cosa era da farsi, assunse l’ufficio con il preciso intento di risolvere il problema nel senso voluto della Sacra Congregazione. Nell’istituto si verificò una spaccatura profonda e a capo delle «ribelli» si trovarono le sorelle De Sanctis.
La Pavoni era una suora eccellente, oltre che per le capacità di comando, per rigore morale. Andò dritta senza tentennamenti. Le De Sanctis non erano da meno, né sul piano morale né in fatto di fermezza di carattere. Erano sostenute poi dalla contrarierà ai voti di quasi tutte le suore italiane più anziane. Teresa e Carolina erano entrate nell’istituto quando la Pavoni nasceva! Era difficile, nei loro confronti, fare appello alla tradizione o pretendere di insegnare loro che cosa avesse inteso fare la fondatrice. Si poteva certo fare appello all’autorità ecclesiastica, ma quante volte Maria De Mattias aveva dovuto insistere e resistere con vescovi e cardinali? Il cardinal vicario, del resto, stava dalla parte delle De Sanctis.
Questi fatti formano un capitolo doloroso, di dibattuto ideale e di rissa. Davanti a episodi del genere, che vedono persone degnissime e sincere su opporti schieramenti, si rimane davvero sconcertati.
Purtroppo le condizioni poste dalla Sacra Congregazione non consentivano scappatoie. Le suore renitenti si trovarono di fronte al dilemma della resa totale o dell’espulsione.
Le suore dissidenti furono private della sede di Via degli Avignonesi e costrette a mutare nome e abito. Si chiamarono Figlie del Divin Sangue.
Fu ripreso un vecchio progetto, mai abbandonato del tutto: la fusione con l’istituto di Patrica, anche esso senza voti. Dopo alcuni anni di trattative si fece strada l’idea della riunione. Fu avanzata la richiesta, di «riammissione» che la direzione generale, l’11 gennaio 1906, accettò. Nel frattempo, Teresa De Sanctis era morta e, unica delle tre evangeliste, il suo nome non finì nel registro delle Adoratrici defunte.
Destino malinconico e, diciamolo pure, ingiusto per una delle più degne seguaci di Maria De Mattias. Definita dalla stessa fondatrice «donna di gran spirito», confermò fino alla fine quella caratura.
Destino ingiusto, perché nessuno più di lei aveva gridato l’entusiasmo di essere nell’Istituto! Nessuno aveva difeso l’opera nascente con più intrepido coraggio. Nella sua famosa lettera al padre, con la quale giungeva a ripudiarlo, si era dimostrata pari a san Francesco d’Assisi, di cui portava il nome. «Io mi sono donata all’istituto per sempre!» aveva gridato.
Eppure chi scorre le pagine del necrologio delle Adoratrici, non la trova!
Questa memoria vuole riconsegnarla a quell’istituto che tanto amò. E additarla alle seguaci come un esempio luminoso da seguire.