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Nuove tutte le cose: discernere il nostro Carisma nella comunione della Croce - P. Nassal

P Nassal

“Nel Sangue di Cristo … nuove tutte le cose”
Assemblea Generale ASC
6 luglio 2023


P Nassal

 

Nuove tutte le cose:
discernere il nostro Carisma
nella comunione della Croce

 

Dia spesso uno Sguardo al Crocifisso,
e in specie alle sue Santissime Piaghe ....
Oh! che amore... Oh! che forza per comunicare con tutti
una perfetta pace, la quale scaturisce dalle Piaghe amorose di Gesù...

S. Maria De Mattias
Lettera #828

            

Due anni fa, mentre guidavo un ritiro durante la Settimana Santa nel sud della California, una delle signore che lavorava nella pastorale giovanile in una scuola superiore cattolica di Los Angeles ha sentito che ero originario della zona di St. Louis e mi ha detto che anche lei era cresciuta nel sud dell’Illinois. Mi ha chiesto se conoscevo le Adoratrici del Sangue di Cristo la cui casa madre a quel tempo era a Ruma. Le ho risposto che non solo conoscevo le Adoratrici, ma che ho vissuto per tre anni in una casa colonica nella loro proprietà. Così abbiamo condiviso le storie di alcune delle Adoratrici che entrambi conoscevamo.
Mi ha detto che all’inizio del 2000 aveva partecipato ad un ritiro a Ruma che ha influenzato la sua decisione di lavorare nella pastorale giovanile. Il sacerdote, ha detto, le aveva trasmesso la spiritualità in maniera davvero semplice e concreta. “Era un sacerdote del Preziosissimo Sangue”, disse, “Padre Joe, ma non so bene come si pronuncia il suo cognome, Nasal o Nassal. Lo conosci?”
Le ho confessato di essere il sacerdote di cui parlava. A quel tempo avevo i capelli più scuri e pesavo qualche chilo in meno. Lei era imbarazzata e anch’io mi sentivo un po’ a disagio pensando a quanto dovevo essere cambiato in vent’anni. Ma ci siamo fatti una bella risata e sono stato felice di sapere che la versione più giovane di me ha avuto un impatto sulla sua vita.
Le Adoratrici hanno sicuramente avuto un forte impatto sulla mia vita. Una delle Adoratrici che viveva a Ruma nel periodo in cui ho abitato nella casa colonica nella loro proprietà, dal 1998 al 2001, era Sr. Mary Catherine Girrens. Nela prefazione al libro di Sr. Regina Siegfried su Sr. Mary Catherine, nella serie ASC Profili, Sr. Joan Marie Voss definisce Sr. Mary Catherine “uno spirito audace e coraggioso” e “una leader poliedrica e di talento”, che nutriva “un amore profondo e appassionato per la congregazione e per il caro prossimo”.
Questa è stata la mia impressione di Sr. Mary Catherine che ha servito la congregazione mondiale delle Adoratrici come insegnante, preside, responsabile delle suore di voti temporanei, provinciale, membro del consiglio generale e superiora generale. Suor Mary Catherine è stata una visionaria che ha saputo leggere i segni dei tempi in cui viveva e ha cercato di rispondere ai bisogni della società e della Chiesa attingendo alla spiritualità del Preziosissimo Sangue e al carisma di Santa Maria.
Per esempio, mentre negli Stati Uniti continuiamo ad avere problemi a causa del nostro peccato originale del razzismo, una delle scelte più significative di Sr. Mary Catherine come preside della St. Teresa Academy di East St. Louis, Illinois, che rifletteva il suo “spirito audace e coraggioso”, è stata quella di iscrivere il primo studente afroamericano nel 1951, tre anni prima della sentenza Brown della Corte Suprema degli Stati Uniti contro il Board of Education, che rendeva incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. 
È stata provinciale dell’ex provincia di Ruma negli Stati Uniti negli anni che hanno preceduto e incluso il Concilio Vaticano II. Mentre tutte le comunità religiose venivano incoraggiate dal Concilio Vaticano II a riappropriarsi del loro carisma, Sr. Mary Catherine incoraggiava le Adoratrici a un’istruzione superiore e ad una comprensione più profonda della spiritualità del Preziosissimo Sangue. Durante i tre anni in cui ho vissuto a Ruma, Sr. Mary Catherine e io abbiamo avuto numerose conversazioni sulla nostra spiritualità e mi sento davvero fortunato per aver potuto far tesoro della sua saggezza e conoscenza e della sua ricca esperienza.
Gli Stati Uniti erano una tela troppo piccola per Sr. Mary Catherine, che fu eletta consigliera generale nel 1965. Come scrive Suor Regina Siegfried: “lei e Madre Marciana Heimerman, la superiora generale, viaggiarono molto in tutte le province per incoraggiare e approfondire lo spirito del Concilio Vaticano II e la crescita nel carisma e nella spiritualità ASC”. Nel 1975 Sr. Mary Catherine divenne superiora generale succedendo a Madre Marciana. Durante il suo mandato la Costituzione della congregazione è stata rivista e sono state aperte le missioni in Corea e in India.
Fin dall'inizio della sua vita, Sr. Mary Catherine ha avuto uno spirito missionario. Decenni prima che Papa Francesco portasse alla nostra attenzione l’espressione “discepolo missionario”, Sr. Mary Catherine ha vissuto questa identità. Da giovanissima, desiderava essere scelta per far parte delle cinque Adoratrici che furono mandate in missione in Cina negli anni Trenta. Ma i suoi piedi missionari hanno potuto seguire finalmente il suo cuore missionario solo quando ha completato i suoi numerosi anni alla guida della congregazione e così ha trascorso diversi anni in India, nelle Filippine e in Bolivia. Era appena tornata dalla Bolivia pochi mesi prima che io mi trasferissi a Ruma, nel settembre 1998, e nei tre anni successivi, nonostante il suo corpo fosse fragile a causa di vari problemi di salute e dell’età che avanzava, desiderava ardentemente tornare in Bolivia. Parlavamo spesso del suo desiderio di svolgere ancora una volta il suo ministero tra i poveri che amava in modo così forte e tenero. 
Se si considera che Sr. Mary Catherine è entrata tra le Adoratrici solo pochi anni dopo la fine della prima guerra mondiale ed è morta il 4 dicembre 2001, meno di tre mesi dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre che ha plasmato gran parte delle relazioni politiche e mondiali di questo secolo, la sua straordinaria vita e la sua testimonianza offrono una chiave per entrare nel tema che mi è stato chiesto di sviluppare oggi. Vale a dire, come la nostra spiritualità del Preziosissimo Sangue può rinnovare tutte le cose e plasmare la nostra risposta alle sfide religiose, ecclesiali e sociali che affrontiamo oggi come discepoli missionari.
Come S. Maria de Mattias, Sr. Mary Catherine e tante Adoratrici che ho avuto il privilegio di conoscere, da cui ho imparato tanto e con le quali ho camminato in questi ultimi quarant’anni, dobbiamo rispondere ai segni di questi tempi con la forza del nostro carisma e il potere del Preziosissimo Sangue. Per esaminare il modo in cui fare questo, parto da tre immagini a noi familiari, tratte dalle Scritture, che caratterizzano la nostra spiritualità e descrivono il nostro carisma: stare con le donne ai piedi della croce; il sangue e l’acqua che sgorgano dal costato di Cristo; il sangue di Cristo che ci chiama a vivere come una nuova creazione nel mondo.
 
Siamo qui: ai piedi della croce
 
Nelle sue lettere S. Maria invita: “Dia spesso uno Sguardo al Crocifisso, e in specie alle sue Santissime Piaghe”. Immaginiamo ora non solo di guardare queste ferite, ma di collocarci in questa scena del Vangelo di Giovanni. “Stavano presso la croce di Gesù sua madre e la sorella di sua madre, Maria moglie di Cleopa e Maria Maddalena”. 
La postura di Maria è eloquente. È in piedi presso la croce, non è chinata o inginocchiata, non è piegata in due dal dolore, ma è in piedi. Sebbene sia sopraffatta dal dolore, è ancora in piedi. Possiamo vedere il suo volto rigato di lacrime. Sicuramente ascolta gli scherni, gli insulti, le offese di coloro che deridono suo figlio, che si prendono gioco della sua nudità, della sua umiliazione. 
Eppure, rimane in piedi. Non scappa e non si nasconde. Non si copre le orecchie per l’orrore. Accoglie tutto. È un atto di resistenza, di determinazione. Come coloro che si radunano fuori da una prigione la notte di un’esecuzione di Stato, lei rimane in piedi in una veglia silenziosa. Non risponde a chi urla oscenità contro suo figlio.
Ma ora comprende ciò che intendeva il vecchio Simeone, tanto tempo prima, quando lei e Giuseppe presentarono il bambino Gesù al Tempio e il vecchio profeta le disse che suo figlio sarebbe stato un “segno di contraddizione” e il suo cuore sarebbe stato trafitto dalla spada. In piedi accanto alla croce, è come se la spada non solo le avesse trafitto il cuore, ma le avesse trapassato tutto il corpo.
Eppure, lei rimane in piedi. Il suo volto, i suoi occhi, le sue lacrime rivelano il suo dolore. É la Madonna Addolorata, che le Adoratrici hanno adottato col titolo di Donna della Nuova Alleanza. La sua postura e il suo silenzio parlano chiaro. “Sta reggendo la tensione”, scrive padre Ron Rolheiser, “rimanendo in piedi con forza, rifiutandosi di ricambiare le offese e resistendo in modo più profondo”.
Quando ci battiamo per qualcosa, per qualcuno, quando ci battiamo contro il male, l’ingiustizia, la violenza, l’oppressione, mostriamo forza anche nella nostra debolezza. Le ginocchia possono tremare, lo stomaco bruciare, il cuore spezzarsi, ma rimaniamo in piedi.
Stare ai piedi della croce è una dichiarazione contro il male che veniva fatto a Gesù. Come i genitori insegnano ai loro figli ad opporsi all’ingiustizia, così Maria, la discepola modello, si è battuta per suo figlio. Non si è lasciata respingere né è fuggita di fronte alla violenza che gli veniva fatta.
È stata testimone dell’esecuzione e “il suo silenzio”, come afferma P. Rolheiser, “irradiava tutto ciò che è antitetico alla crocifissione: dolcezza, comprensione, perdono, pace, luce”. Rimanendo ai piedi della croce, Maria è rimasta dolce e forte.
Durante tutta la sua vita, mia madre è stata come la nostra Beata Madre ai piedi della croce mentre guardava morire suo figlio. Mia madre ha seppellito il suo figlio più grande e quello più piccolo. Sia mio fratello che mia sorella erano piuttosto giovani quando sono morti. Mio fratello aveva 37 anni e mia sorella 47. Queste sono state le croci più pesanti che mia madre ha portato nella sua vita, ma le ha portate con una fede profonda e costante in un Dio che era sempre con lei.
            La morte di mia sorella, avvenuta il 29 novembre 2010, ha costretto mia madre e la mia famiglia a trascorrere più di un mese ai piedi della croce. Durante le quattro settimane che mia sorella Mary ha trascorso in terapia intensiva, ci siamo aggrappati a ogni dichiarazione positiva delle infermiere o dei medici. Avevamo bisogno di credere che Mary sarebbe stata bene, che sarebbe migliorata e che quel suo bellissimo sorriso che donava tanta gioia a coloro che erano catturati dal suo splendore sarebbe tornato a brillare di luce, risate e amore.
Ma alla fine, la medicina moderna è stata impotente a fermare la diffusione della morte che avanzava nel corpo di mia sorella, e la mia sorella più piccola che stava per iniziare la prima elementare l’anno in cui sono andato al seminario è morta la prima domenica di Avvento.
Una mattina ero a casa con la mamma durante quel mese in cui Mary era in ospedale, mia sorella Sharon ha chiamato dall’ospedale per dire che Mary era peggiorata. Sharon voleva che preparassi la mamma a capire che l’aspetto di Mary era cambiato drasticamente. La mamma era davanti al lavello della cucina quando le ho detto che le condizioni di Mary erano peggiorate. La mamma si è chinata sul lavandino e ha pianto. L’ho tenuta stretta e lei ha singhiozzato sulla mia spalla: “Per favore, Dio, non prendere un altro dei miei figli! Non credo di poter sopportare di perdere un altro figlio”. In quel momento, ho avuto la sensazione di ciò che doveva essere stato per il discepolo Giovanni aggrapparsi a Maria, la madre di Gesù, mentre lui pendeva dalla croce.
 
Donna della Nuova Alleanza
 
Cosa facciamo quando siamo sopraffatti dalla croce? L’accettiamo passivamente, lasciando che ci schiacci, ci spezzi fino a quando di noi non rimane altro che piccoli pezzi sparsi per terra?
Oppure lasciamo che essa penetri in noi, la assimiliamo, in modo che non ci spezzi, ma ci pieghi, ci renda più flessibili, più duttili, più compassionevoli? 
Maria, ai piedi della croce, ha assorbito tutto. Era come una spugna che assorbiva le lacrime di suo figlio fino a quando ha dovuto dirgli addio. Ma ha anche assorbito tutto l’odio, tutti gli scherni, tutti gli insulti diretti a Gesù. Li ha accolti tutti senza rispondere, senza urlare o imprecare a sua volta. 
Quando facciamo questo, disperdiamo parte della rabbia, parte dell’odio. Spezziamo il ciclo di vendetta e violenza. Esso si ferma qui, ai piedi della croce.
L’ex Maestro Generale dei Domenicani, padre Timothy Radcliffe, ha scritto: “Ai piedi della croce nasce la nostra famiglia dalla quale nessuno può essere escluso”. Per questo motivo siamo tutti fratelli e sorelle, perché Maria, Donna della Nuova Alleanza, è nostra madre. Non siamo lontani cugini o imparentati attraverso il matrimonio. No, la croce ci rende fratelli e sorelle perché “condividiamo lo stesso sangue, il sangue della croce”.
Padre Radcliffe sottolinea che chiamare un'altra persona fratello o sorella - anche chi ci prende in giro o si prende gioco di qualcuno che amiamo e perfino chi ci ha traditi o ci ha spezzato il cuore - non è solo un’affermazione sulla relazione che condividiamo nella nuova alleanza, ma anche un “annuncio di riconciliazione”.
È così che spezziamo quel ciclo di violenza ai piedi della croce: riconoscendo che la persona che ci fa del male è ancora un nostro fratello o sorella. Non perdiamo mai di vista questa relazione perché ogni persona è fatta a immagine di Dio. La nostra opera di riconciliazione che inizia ai piedi della croce comincia col riconoscimento di ogni persona come fratello o sorella di sangue, senza eccezioni.
L’arcivescovo Helder Camara di Recife, in Brasile, credeva profondamente che tutti i poveri - i più poveri tra i poveri - fossero suoi fratelli e sorelle. C’è una storia famosa secondo cui quando l’arcivescovo Camara veniva a sapere che uno dei poveri della sua diocesi “era stato arrestato ingiustamente, telefonava alla polizia e diceva: Ho sentito che avete arrestato mio fratello”. La polizia si scusava e rispondeva: “Ci dispiace, Eccellenza, non sapevamo che fosse suo fratello” e lo rilasciavano all’arcivescovo. Quando la polizia faceva notare che la persona arrestata non aveva lo stesso cognome, l’arcivescovo diceva che ogni povero era suo fratello e sorella.
Quando siamo ai piedi della croce, riconosciamo che la sofferenza fa parte della vita. Nessuno sfugge ad essa. Essere umani, essere vivi, significa fare esperienza della sofferenza, del dolore, della perdita, della morte di qualcuno che amiamo. Presso la croce, siamo solidali con tutte le madri del mondo i cui figli sono scomparsi o sono morti, con tutti i rifugiati che cercano riparo dalla persecuzione e dall’oppressione, con tutte le famiglie che lottano per sopravvivere a causa dell’ingiustizia economica sistemica. 
Poiché Santa Maria considerava ogni persona, specialmente le donne e i bambini, come il “caro prossimo”, scriveva: “Lo spirito di questa santa Opera è tutto carità. Questa parola l’abbiamo scolpita nella nostra mente e nel nostro cuore; dico Carità, Carità verso Iddio e verso il nostro caro prossimo.”  Quando siamo ai piedi della croce con il nostro caro prossimo, non trasmettiamo il dolore, la sofferenza o il male a qualcun altro.
Discernere il nostro carisma alla luce dei segni di questi tempi inizia qui, ai piedi della croce. Il vostro simbolo del cuore con la croce e il sangue racchiude splendidamente questa chiamata “ad essere una presenza compassionevole e riconciliante”, in solidarietà con tutti coloro che soffrono l’ingiustizia, l’oppressione e la disuguaglianza. Di fronte a tante questioni che minacciano di dividere la famiglia umana e il popolo di Dio, spesso ci viene chiesto: “Da che parte stiamo?”. Noi stiamo qui, ai piedi della croce, con tutto il nostro caro prossimo che soffre.
 
Fare la pace: il sangue della croce
 
Nella sua lettera ai Colossesi, San Paolo scrive: “Piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1: 19-29). Santa Maria de Mattias fa eco alla passione di Paolo per la pace che viene dal sangue di Cristo quando scrive: “Che forza per comunicare a tutti una perfetta pace che scaturisce dalle piaghe amorose di Gesù”.
Come religiosi, il cui stesso nome evoca il sangue della croce, diamo testimonianza di questa pace. Ma prima potremmo chiederci, come fa padre Ron Rolheiser nel suo libro, La Passione della Croce: “Perché è necessario versare sangue per ottenere il perdono dei peccati e colmare l’abisso tra Dio e noi?”. La sua risposta esamina il modo in cui nelle culture antiche il sangue veniva offerto agli dei per poter riacquistare la loro benevolenza. Si tratta del sangue di capre e agnelli per placare gli dei e riflette l’antico principio che il sangue è vita. Quando perdiamo troppo sangue, moriamo.
Nelle culture antiche, questo era chiaro per le persone e lo è anche oggi. Troppo sangue equivale alla morte. “Nella loro visione delle cose”, scrive P. Rolheiser, “il sangue era l’unico linguaggio che Dio capiva. Quindi, sentivano di dover offrire il sangue a Dio. E lo hanno fatto. Per molto tempo, questo ha incluso il sangue umano. Gli esseri umani sono stati uccisi sugli altari ovunque.”
A poco a poco, le culture sono passate dal sacrificio umano al sacrificio animale. Padre Richard Rohr sottolinea che per secoli gli esseri umani hanno offerto il sangue degli animali a Dio per attirare l’attenzione di Dio o per invocare la sua misericordia. Ma, “nella crocifissione le cose si invertono: Dio versa il proprio sangue per riconquistarci. È questo capovolgimento che squarcia il vecchio velo della paura, la falsa credenza che Dio voglia il sangue. Dio non vuole che versiamo il sangue per arrivare a Dio. Non siamo fatti per vivere nella paura di Dio. Tutto il sangue nella crocifissione di Gesù ha lo scopo di farci capire questa verità. Come diceva Santa Maria, il sangue di Gesù è “il trionfo della sua misericordia” che rivela “l’amore infinito di Dio per noi”.
 
Una nuova nascita: sangue ed acqua
 
Non solo abbiamo il sangue che sgorga dalle piaghe di Cristo, ma abbiamo anche l’immagine potente che leggiamo in Giovanni 19, 34, quando “uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua”. La Chiesa ha collegato l’acqua e il sangue che sgorgano dal corpo crocifisso di Cristo come simboli della celebrazione del Battesimo e dell’Eucaristia.
Ma c'è qualcosa di più primordiale in questa potente immagine dell’acqua e del sangue che sgorgano dal costato di Cristo. Essi simboleggiano la nascita. Quando nasce un bambino, sangue e acqua accompagnano il parto. Nel vangelo di Giovanni, la morte di Gesù simboleggia la nascita di una nuova creazione.
            “Cos’è il sangue?”, chiede P. Rolheiser. “Il sangue è il principio vitale dentro di noi. Siamo vivi quando il sangue scorre in noi. Cos’è l'acqua? L'acqua fa due cose per noi: ci disseta e ci lava”. Coloro che credono che Gesù è il Messia, “hanno immediatamente riconosciuto che il tipo di amore che Gesù ha manifestato morendo in questo modo ha generato una nuova energia e libertà nelle loro vite. Hanno sentito sia un’energia che una purificazione nel sangue e nell’acqua che sgorgavano dalla morte di Gesù”.
In una delle sue lettere, S. Maria descrive il sangue di Cristo come “una fontana, o meglio, un fiume vivificante a disposizione di tutti. Sgorga e scorre senza fine per tutti i figli di Adamo e rimane con loro, accompagnandoli in ogni momento della loro vita terrena per renderli santi e condurli alla gioia eterna della vita in cielo.”
Ancor prima che lo Spirito Santo apparisse nel soave alito di Gesù nel cenacolo o nel vento forte e impetuoso e nelle lingue di fuoco negli Atti degli Apostoli che celebriamo a Pentecoste, l’acqua e il sangue che sgorgano dal costato di Cristo riflettono una nuova nascita, una nuova creazione. Coloro che sono riuniti ai piedi della croce sono energizzati dal sangue e dall’acqua che sgorgano dal suo costato. Questo genera per loro un flusso di misericordia. Mettono a coppa le mani e riempiono i loro cuori con l’amore misericordioso di Dio che pulisce, purifica e poi genera una ritrovata libertà.
Che cosa significa nascere nella morte di Gesù? I primi discepoli hanno sperimentato questo fiume di misericordia come un nuovo inizio. Il sangue che scorre dal costato di Gesù offre una trasfusione. La loro risposta anemica all’arresto di Gesù, alla sua tortura e alla sua crocifissione rivelava la loro paura. Il loro sangue scorreva freddo. Erano senza vita.
Ma ora non dovranno più avere paura. Il sangue caldo che sgorga dal costato di Cristo offre loro una nuova possibilità di vita. Ci vorrà un po' di tempo prima che la trasfusione di sangue faccia effetto nel loro organismo. Come coloro che hanno regolarmente bisogno di trasfusioni di sangue per vivere, così Gesù offre ai suoi amici impauriti il sangue di cui hanno bisogno per l’opera della nuova creazione. 
Forse, proprio lavando le loro speranze, il loro dolore, la loro vita nel fiume che scorre dal costato di Cristo, Maria e l’altra Maria hanno trovato il coraggio di andare al sepolcro per ungere il corpo di Gesù e Giovanni ha trovato la grazia di prendersi cura della madre di Gesù, e la madre di Gesù ha trovato l’amore anche nel suo dolore per accogliere Giovanni come suo figlio.
Questo è il luogo dove  Giuseppe d’Arimatea, “discepolo di Gesù, ma di nascosto per paura dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù per dargli degna sepoltura” (Gv 19, 38). E dove Nicodemo, “quello che in precedenza era andato da lui di notte, andò e portò una mistura di mirra e di àloe di circa cento libbre” per ungere il corpo per la sepoltura (Gv 19, 39).
Nel sangue e nell’acqua, il flusso di misericordia che sgorga dal corpo di Cristo, ha inizio la nuova creazione nella morte di Gesù. Anche se i dolori del parto di questa nuova creazione sono particolarmente evidenziati nei vangeli sinottici con Gesù che grida la preghiera dell’abbandono e della fiducia, l’immagine di Giovanni del sangue e dell’acqua mostra che la redenzione e la riconciliazione sono iniziate. L’acqua, simbolo del battesimo, ci invita a credere che siamo stati purificati. La nostra sete di redenzione e di riconciliazione è placata e possiamo andare ad annunciare la nuova creazione.
Portiamo dentro di noi questo sangue e quest’acqua e  questo ci spinge ad essere testimoni dell’amore di Dio nel mondo. La misura di questo si trova nel modo in cui cerchiamo di trasmettere l’amore che Gesù ci mostra sulla croce. In che modo permettiamo allo spirito di fluire attraverso di noi per invitare gli altri a purificare le loro speranze e ferite, i loro sogni e tragedie, i loro peccati e colpe, nel flusso della misericordia per diventare una persona nuova nel sangue di Cristo?
                        
La circolazione del sangue: verso le periferie
 
Questi simboli del sangue e dell’acqua costituiscono la base del modo in cui la nostra spiritualità realizza e motiva la nostra missione nel mondo. Ma, come ha detto qualcuno una volta: “per fare del bene, il sangue deve circolare”. Cosa succede quando il sangue non raggiunge le estremità? Le dita delle mani e dei piedi muoiono. Il richiamo del sangue è verso le periferie, verso i margini, alle estremità del nostro mondo. Ecco il nostro slancio per la missione. Dobbiamo andare ai margini facendo circolare il sangue prezioso in tutto il corpo di Cristo e oltre.
Il sangue di Cristo deve circolare attraverso il corpo di Cristo per fare del bene. Ma la sfida che affrontiamo oggi come religiosi è che, sebbene crediamo che il sangue scorra ancora, molti nella vita religiosa temono che con le nostre comunità che invecchiano, il sangue scorra più lentamente e che il cuore debba lavorare di più per spingere il sangue attraverso le arterie. Forse le nostre vene sono piene di placche accumulate per un eccesso di pessimismo. Forse è per questo che ogni tanto il nostro sangue ha bisogno di ribollire di rabbia per l’ingiustizia e l’oppressione che vediamo nel nostro mondo per ricordarci che c’è ancora vita in queste vecchie ossa.
Alcuni anni fa, nella sua omelia della domenica prima del mercoledì delle Ceneri, Papa Francesco ha parlato della storia del lebbroso nel vangelo di Marco che chiese a Gesù di essere guarito. Nel guarirlo, Gesù gli disse di mostrarsi al sacerdote e di tacere. Invece, il lebbroso appena purificato, diffuse la notizia della guarigione a tutti coloro che incontrava. Ben presto Gesù dovette ritirarsi perché tanta gente lo cercava.
Riflettendo sulla sua esperienza, Francesco ha fatto notare che quando Gesù ha guarito il lebbroso, si è posto al di fuori dell’accampamento, “ha preso su di sé l'emarginazione che la legge di Mosè imponeva ai lebbrosi”. In questo modo, ha affermato Francesco, “Gesù reintegra gli emarginati!”.
Tra il suo pubblico quel giorno c’erano i nuovi cardinali da lui nominati. Le sue parole finali sono state: “Non troveremo il Signore se non accettiamo veramente gli emarginati! Il Vangelo degli emarginati è il luogo in cui la nostra credibilità si gioca, si scopre e si rivela!”.
Nel nostro mondo odierno, dove tanto sangue è versato a causa della violenza, riversandosi sulla terra, dove tante vite si perdono, dobbiamo tenere gli occhi fissi sulla strada dove il sangue viene lavato via dale strade ogni giorno. Questo è il sangue che ci chiama, ci reclama e talvolta ci fa anche vergognare. Sì, lo spargimento del sangue sulla croce è stato redentivo, i nostri peccati perdonati, la nostra colpa espiata, la nostra vergogna cancellata. Ma la nostra inattività e disattenzione al sangue versato a causa della violenza oggi ci fa chinare il capo per la vergogna.
            Se non siamo motivati all’azione dallo spargimento di sangue a cui assistiamo ogni giorno, quale significato ha, allora, la nostra professione? La nostra spiritualità ci spinge a percorrere le strade macchiate di sangue, a fermarci e ad ascoltare coloro che lungo la strada sono stati messi da parte, investiti o considerati inutili dalla società o dalla Chiesa. Fermarsi a guarire le loro ferite e ascoltare le loro storie. Contrassegnare il luogo macchiato di sangue come un luogo sicuro. Un luogo di salvezza.
Con il caldo soffio dello Spirito Santo che alita sul nostro collo, percorriamo questa strada segnata dal sangue di Cristo. È la strada che ci porta a vivere come una nuova creazione.
 
Vivere come una Nuova Creazione
 
Come ha scritto un missionario del Preziosissimo Sangue, Padre Robert Schreiter, “la nuova creazione è uno dei temi fondamentali della Buona Novella di Gesù Cristo. Fondamentalmente, significa che non importa quanto le cose siano cattive o rotte, c’è sempre una possibilità di rinascita, di una nuova vita in Cristo.”
Eppure, tante persone sono titubanti e timorose all’idea di diventare una nuova creazione. Forse perché, come ha detto Fëdor Dostoevskij, “fare un nuovo passo, pronunciare una nuova parola, è ciò che la gente teme di più”. Forse possiamo superare questa paura prendendo a cuore il consiglio di Sr. Joan Chittester che ha detto: “Cercate di vivere in modo che ogni giorno sia una nuova creazione”.
Come possiamo fare questo? Come ci si sveglia ogni mattina senza portare i pesi del giorno, della settimana, del mese o degli anni precedenti o il peso delle aspettative, degli appuntamenti, dei programmi che la giornata riserva? Come si fa a separare il vecchio dal nuovo? Forse abbracciando un’immagine evocata da Papa Francesco nella sua enciclica La gioia del Vangelo. Egli ha ricordato la famosa frase di San Papa Giovanni XXIII che, quando ha aperto le porte e le finestre della Chiesa allo Spirito del Vaticano II, ha affermato che la Chiesa “preferisce usare la medicina della misericordia”.
Una delle immagini riportate in La gioia del Vangelo che coglie la verità di mettere in pratica la propria fede per generare una nuova creazione è quella di un ospedale da campo “dove si curano soprattutto i feriti più gravi”. C’era una serie televisiva negli Stati Uniti negli anni ‘70 e ‘80 chiamata “MASH” - Mobile Army Surgical Hospital. Questa serie era incentrata su medici e infermieri che operavano vicino al fronte durante la guerra di Corea. L’ospedale chirurgico si spostava laddove si trovavano i feriti ed effettuava il triage. Dovevano prendere decisioni immediate su chi doveva essere curato per primo, sulle ferite le più urgenti.
Noi usiamo l’espressione “discepoli missionari”, ma il significato è lo stesso: dobbiamo essere mobili, camminare con leggerezza, disponibili e aperti ad andare dove c’è più bisogno di noi. Nel suo libro The Call to Conversion, Jim Wallis scrive che “i primi cristiani erano conosciuti per il modo in cui vivevano, non solo per il modo in cui credevano”. Per i primi seguaci di Gesù, c’era una connessione perfetta tra fede e vita. La fede non era separata dalla vita quotidiana. Infatti, la loro fede in Cristo crocifisso e risorto ha caratterizzato il loro cammino di vita.
“Il primo titolo dato loro rifletteva l’importanza del loro stile di vita nel Regno”, scrive Wallis. “Non erano chiamati il “popolo dell’esperienza” o il “popolo della giusta dottrina” e nemmeno il “popolo della Chiesa”. Piuttosto, erano visti come il “popolo della Via”." Il significato di questa denominazione è che quando le persone sperimentavano la conversione, divenivano una nuova comunità di fede che intraprendeva insieme un nuovo stile di vita. “Seguire Gesù significava condividere la vita di Gesù e condividerla con gli altri”.
Ma questo non è successo dall’oggi al domani. Ci è voluto molto tempo per cucire insieme le vesti della fede e della vita, per tessere la loro fede in ogni punto, ogni incontro, ogni esperienza, ogni relazione. Questo richiama alla mente il detto nel lavoro per la giustizia sociale secondo cui lottiamo sempre meno per problemi o ideali e sempre di più per persone specifiche.
Qui il vostro nome, Adoratrici, diventa più che un’identità: un’attività. Come Adoratrici, riconoscete il sangue di Cristo che pulsa nel corpo di ogni persona che accompagnate lungo il cammino. Come donne che portano il nome di Adoratrici, formate una comunità che si è innamorata di Dio e delle persone sofferenti del pianeta e anche del pianeta sofferente. Voi permettete che le relazioni che stabilite sia nella comunità che con le anime ferite che accompagnate vi confortino e vi disturbino. Queste relazioni vi trasformano e vi danno il coraggio di percorrere questo cammino nella promessa di diventare una nuova creazione.
Iniziare una nuova vita
 
Come ha scritto il poeta francese Paul Claudel, “Gesù non è venuto per spiegare la sofferenza o per eliminarla. È venuto per riempirla con la sua presenza”. Spesso non abbiamo scelta quando si tratta di ciò che soffriamo. Quasi ogni giorno assistiamo ad atti di violenza, a sparatorie di massa e ai terremoti, come all’inizio di quest’anno in Turchia e in Siria. Le persone che hanno sperimentato quei terremoti che si sono verificati nel cuore della notte, quando la maggior parte di loro dormiva, non hanno avuto scelta.
Con l’invecchiamento dei membri nelle nostre comunità religiose, possiamo facilmente identificarci con le parole che Gesù rivolse a Pietro nella famosa scena alla conclusione del Vangelo di Giovanni quando, dopo aver chiesto a Pietro per tre volte se lo amava, Gesù gli dice: “quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18). Eppure, anche dopo aver predetto a Pietro quale tipo di morte avrebbe sperimentato, enfatizza la sua promessa con la stessa frase che gli aveva detto quando lo aveva incontrato per la prima volta sulla barca da pesca: “Seguimi”.
La scelta che abbiamo è quella di seguire la traccia del sangue di Cristo ovunque essa conduca - attraverso un paesaggio caratterizzato dalla diminuzione del numero dei membri e da una crescente vulnerabilità a causa della violenza, della disuguaglianza e della continua polarizzazione all’interno della Chiesa e del mondo - perché, come afferma P. Rolheiser, quando stiamo vivendo le nostre esperienze di sofferenza abbiamo “l'opportunità di donare il nostro amore e noi stessi agli altri in un modo molto profondo”.
Gesù ha sperimentato questo senso di impotenza per la prima volta nel giardino del Getsemani quando chiese a tre dei suoi amici di rimanere svegli e vegliare con lui mentre pregava. Ma, naturalmente, essi non riuscirono a tenere gli occhi aperti e si addormentarono. Gesù era solo, abbandonato, isolato e indifeso. Questo è uno dei grandi temi della sofferenza e della morte di Gesù: il senso di abbandono e di solitudine che prova. A questo possiamo pensare quando ci sentiamo soli e dimenticati.
Nell’esperienza più umiliante e disumana che si possa immaginare, Gesù “stese le sue braccia tra cielo e terra come segno perenne dell'amore di Dio”. Con questo gesto, ha dimostrato ciò che Paolo ha scritto, ossia che nulla può separarci dall’amore di Dio che si rivela nella sofferenza, morte e risurrezione di Gesù.
Con le braccia stese ha inspirato tutto il fetore della morte causato dall’odio, dall’indifferenza, dalla violenza. E, quando ha esalato l’ultimo respiro, ha rivelato che l’unico modo per trasformare il male e l’odio è attraverso il potere dell'amore incondizionato.
È questo amore, che si trova nel perdono ed è radicato nella riconciliazione, che egli incarna nel cenacolo dopo la sua risurrezione, quando appare ai suoi amici impauriti che lo avevano tradito e abbandonato. Mostra loro le sue ferite, offre loro il bacio della pace, “Shalom”, e poi alita su di loro. Questo atto singolare richiama il libro della Genesi quando Dio formò gli uomini dalla terra e soffiò in loro un alito di vita. Questa è la nuova genesi, la nuova creazione, perché quando Gesù alita sui suoi discepoli, secondo la meravigliosa frase di Victoria Lynn Garvey, “il suo respiro puzza di risurrezione”.
Ecco perché la nostra fede nella nuova creazione è così importante, secondo P. Schreiter, “perché significa che... è sempre possibile, con l’aiuto della grazia di Dio, avere un nuovo inizio”.
Curare le ferite
 
Come Gesù ha mostrato ai suoi discepoli nel cenacolo, questa nuova creazione riconosce che il corpo risorto di Cristo porta ancora le cicatrici della crocifissione. Siamo tutti feriti e, come Papa Francesco ha sottolineato nella sua immagine dell’ospedale da campo, la nostra sfida è quella di aiutare a guarire le ferite nella nostra Chiesa e nel nostro mondo. 
È qui che la nostra spiritualità e il nostro carisma parlano direttamente e con forza alle questioni che la Chiesa sta affrontando oggi attraverso il processo sinodale. In un mondo e in una Chiesa in cui la divisione e la polarizzazione stanno diventando sempre più accentuate, l’unico ponte attraverso gli abissi che ci dividono è la croce. Quando Gesù è morto sul Calvario, voleva essere una presenza unificante in un mondo diviso dal peccato. Ha cercato di attirare tutti i popoli divisi dalla razza o dal credo, genere o cultura, disparità economica, malattia fisica o mentale, in un solo corpo, un solo spirito, in Cristo.
Come afferma il documento di lavoro del Vaticano per il Sinodo, Allarga lo spazio della tua tenda, al centro di questo processo c’è la visione che noi, come comunità di fede, siamo “capaci di inclusione radicale, appartenenza condivisa e profonda ospitalità” secondo gli insegnamenti di Gesù. A tal fine, le Adoratrici del Sangue di Cristo e i devoti del Preziosissimo Sangue di tutto il mondo devono affrontare le contraddizioni che sperimentiamo oggi. Il Cardinal Robert McElroy ha definito chiaramente queste contraddizioni in un articolo per la rivista America all’inizio di quest’anno. In particolare, esso evidenzia come una comunità di fede sul cammino dell’unità gestisce la crescente polarizzazione “e le strutture di esclusione che essa genera”. Proprio come la politica del mondo è stata “avvelenata da un tribalismo che sta fiaccando le nostre energie e mettendo in pericolo la nostra democrazia...così quel veleno è entrato nella vita della Chiesa”.
Questo veleno della polarizzazione, dice il documento vaticano, ci intrappola nel conflitto, così che “gli orizzonti si restringono, si perde il senso dell’insieme e ci si frammenta in sotto-identità” che riportano più all’esperienza di Babele che alla Pentecoste. Nell’ascoltare l’altro, non cerchiamo di “convincere, ma di comprendere l’esperienza e i valori degli altri che li hanno condotti a questo momento”. Anche il modo in cui identifichiamo coloro con cui non siamo d’accordo è importante. Li vediamo come avversari? O li vediamo come fratelli e sorelle?
Oltre alla polarizzazione, la ferita dell’emarginazione continua ad essere infetta e va curata. Il Cardinal McElroy identifica questa ferita negli Stati Uniti con il peccato del razzismo che ha emarginato le nostre comunità afroamericane e native americane per generazioni. Ma c’è un lungo elenco di coloro che sono emarginati, tra cui le vittime di abusi sessuali e della tratta di esseri umani, i senzatetto e senza documenti, i carcerati e i rifugiati.
Facendo eco a quanto Papa Francesco ha detto ai cardinali qualche anno fa, McElroy suggerisce che il modo in cui possiamo affrontare l’emarginazione “è portare sistematicamente le periferie al centro della vita della Chiesa”. Questo significa fare di coloro che sono emarginati una missione prioritaria della Chiesa. Siamo chiamati ad una “genuina solidarietà” che si riflette nel nostro “sostenere gli esclusi” e “dare un posto privilegiato nelle priorità, nei bilanci e nelle energie di ogni comunità ecclesiale a coloro che sono perseguitati e ignorati”.
Ancora, un’altra ferita per la quale le Adoratrici possono richiamare la Chiesa alle sue responsabilità è il modo in cui le donne sono trattate. Come Congregazione religiosa motivata dalla nostra spiritualità che invita all’inclusività (“avvicinare tutti i popoli nel sangue di Cristo”), le Adoratrici possono promuovere nella Chiesa l’ammissione, l’invito e l’impegno attivo delle donne in ogni aspetto della vita e della leadership ecclesiale. Come afferma il Cardinal McElroy, per combattere il clericalismo ovunque esso generi il suo disprezzo per l’uguaglianza, Papa Francesco ha avviato uno stile di leadership più inclusivo, allentando il “legame obbligatorio tra identità episcopale e ruoli di leadership nella Curia romana, inclusa la direzione dei principali dicasteri romani”.
Il nostro carisma e la nostra spiritualità ci spingono anche a sfidare la nostra Chiesa e le nostre comunità di fede ad essere più inclusive nei confronti di coloro che sono emarginati a causa del loro orientamento e della loro identità sessuale e a causa di circostanze della loro vita, come la fine di una relazione a causa del divorzio e il successivo matrimonio, che impedisce loro di partecipare pienamente alla vita della Chiesa. Come scrive il Cardinal McElroy, “l’esclusione di uomini e donne a causa del loro stato civile o del loro orientamento/attività sessuale è preminentemente una questione pastorale, non dottrinale”. Quindi, in virtù della nostra spiritualità e del nostro carisma, le persone del Preziosissimo Sangue dovrebbero essere in prima linea nel ministero con tutti coloro che sono emarginati.
Come comunità religiosa il cui stesso nome evoca l’Eucaristia, siamo dolorosamente consapevoli che questi problemi hanno impedito a molti di avere un posto alla mensa dell’Eucaristia. Ma, come si afferma nella relazione dell’Inghilterra e del Galles per il sinodo, “sogniamo una Chiesa che viva più pienamente un paradosso cristologico: proclamare con coraggio il suo insegnamento autentico e allo stesso tempo offrire una testimonianza di inclusione e accettazione radicale attraverso un accompagnamento e discernimento pastorale”. Nel corso della vostra storia, voi Adoratrici del Sangue di Cristo avete cercato di testimoniare questa “inclusione radicale” nella vostra attività pastorale, nella missione e nel ministero di accompagnamento.
Comunione nel caos
 
In conclusione, questo senso di abbandono ed esclusione che molti sperimentano oggi nella nostra Chiesa riflette il caos sperimentato da Gesù quando ha abbracciato la croce. Ma i semi del caos della croce hanno avuto inizio durante la comunione con Gesù che celebrava la Pasqua con i suoi compagni e amici più stretti e poi sono esplosi pienamente dopo il suo tradimento. Ma tutto ha avuto inizio con la festa pasquale quando Gesù invita alla comunione coloro che sa che lo abbandoneranno e lo tradiranno pur conoscendo i pericoli in agguato nell’ombra.
Come guaritrici ferite, le Adoratrici accompagnano coloro che sono stati esclusi dalla mensa della comunione perché riconoscono che siamo tutti feriti. Lo ripetiamo ad ogni Eucaristia: “Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato”. Dobbiamo sempre ricordare, come ha affermato spesso Papa Francesco, che l’Eucaristia non è un premio per la buona condotta, ma la “medicina della misericordia”. Il Cardinal McElroy aggiunge: “L’indegnità non può essere il criterio di accompagnamento per i discepoli del Dio della grazia e della misericordia”.
Nella sua omelia per la festa del Corpo e Sangue di Cristo di qualche anno fa, Papa Francesco ha parlato di comunione che porta alla trasformazione. Ha detto che mentre siamo trasformati dall’Eucaristia, dobbiamo “essere strumenti di comunione”. Cosa significa essere “strumento di comunione”? Forse ha qualcosa a che fare con il rimanere calmi anche in mezzo al caos che si stava scatenando quella notte in cui Gesù fu tradito.
Per fare un esempio di cosa significhi essere uno strumento di comunione possiamo riandare al 1940 quando un giovane studioso protestante della Svizzera fu sfidato e toccato dall’odio che travolgeva l’Europa per l’ascesa di Hitler e capì che doveva fare qualcosa. Si recò quindi in Francia dove acquistò una vecchia casa in un villaggio isolato nella regione della Borgogna. Per i primi due anni visse da solo e accolse nella sua casa ebrei e altri profughi in fuga dall’occupazione nazista. Scoperto dai nazisti, dovette tornare in Svizzera nel 1942. Ma tornò in Francia due anni dopo e con tre compagni formò una comunità religiosa ecumenica che cercava di trascendere il dogma e la dottrina delle confessioni per scoprire il terreno comune dell’amore.
Frère Roger Schultz e i suoi tre compagni hanno fondato la prima comunità monastica interreligiosa del mondo nel villaggio sconosciuto di Taize. Oggi essa conta più di 100 fratelli di varie tradizioni cattoliche e protestanti provenienti da trenta Paesi ed è diventato uno dei luoghi di preghiera e di pellegrinaggio più importanti del mondo. Prima della pandemia, più di 100.000 giovani da tutto il mondo si recavano ogni anno in pellegrinaggio a Taize per pregare, studiare e lavorare in comune. Essi sono poi incoraggiati a tornare alle loro case per vivere lo spirito di Taize, di semplicità, di compassione, di riconciliazione. La preghiera della comunità di Taize è diventata una pratica popolare tra coloro che sono in cerca di spiritualità in tutto il mondo.
            Frère Roger ha definito Taize una “parabola di comunione”. Ha scritto: “Per tutta la mia vita, il mio desiderio non è mai stato quello di condannare” ma “di cercare di comprendere piuttosto che di essere compreso. Ogni essere umano è unico. In ogni persona è possibile vedere il volto stesso di Cristo”. La sua vita è stata una parabola di ciò che Gesù ha fatto quella notte prima di morire quando, in mezzo al tradimento e al caos della croce, ha creato la comunione. E, come Gesù, frère Roger ha subito una morte violenta quando è stato pugnalato alla gola durante un servizio di preghiera serale il 16 agosto 2005.
Come possiamo anche solo cominciare a capire la sofferenza e il dolore degli altri? In realtà, non possiamo farlo. Conosciamo solo il nostro dolore. Ma questo è sufficiente per spingerci alla solidarietà con gli altri.
In quella atmosfera in cui la mancanza di fiducia è evidente, Gesù prende gli elementi della terra, il pane e il vino, e si identifica con essi, proclamando che questo pane che viene passato intorno alla mensa è “il mio corpo”. Invita tutti coloro che sono intorno a quella mensa a entrare nella profondità dell’intimità e della comunione.
Quando prende il calice del vino e dice: “Questo è il mio sangue”, invita i suoi compagni a bere fino in fondo la grazia incessante dell’amore di Dio. Consentite a questo vino di riscaldare la lingua, bruciare la gola ed eccitare i sensi. Ogni volta che ci riuniamo per la comunione e veniamo all’altare del Signore, dove il pane e il vino vengono alterati, cambiati, trasformati nel Corpo e nel Sangue di Cristo, anche noi siamo chiamati ad essere alterati, cambiati, trasformati.
Un’ultima immagine: la relazione italiana per il sinodo afferma che “la chiesa-casa non ha porte che si chiudono, ma un perimetro che si allarga di continuo”. Questo è ciò che il nostro carisma e la nostra spiritualità come persone del Preziosissimo Sangue ci chiamano a fare. Il sangue di Cristo versato sulla croce avvicina tutte le persone, nessuna esclusa. Pertanto, noi come comunità dobbiamo allargare le nostre tende in modo che tutti coloro che cercano riparo possano trovare un luogo sicuro sotto le braccia stese della croce. La croce non solo regge questa tenda, ma è anche la porta che si apre su questo spazio sacro che si estende oltre i confini del nazionalismo e le barriere del fanatismo, del razzismo, dell’omofobia, della misoginia e di ogni tipo di pregiudizio. L’avanzare degli anni e l’accumularsi delle lacrime non ha affievolito la vostra disponibilità ad aprire porte, costruire ponti e raggiungere i più bisognosi.
Quindi, mentre abbracciate con coraggio una visione di futuro pieno di speranza, nelle parole di Santa Maria, prendete coraggio “nel Sangue di Gesù che vi protegge (Lettera n. 406)”.

 

Domande per la riflessione/dialogo

 

  • Quale ispirazione della nostra spiritualità e carisma ci motiva nella nostra testimonianza di vita e nella missione?
  • Osservando i segni di questi tempi, quali sono le nostre priorità? Dove sono i margini, le periferie? Dove sono le ferite nella Chiesa e nella società che siamo chiamati a curare?
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