Lo scorso 18 novembre presso la sede nazionale dell’Usmi (Unione Superiore Maggiori d’Italia) a via Zanardelli a Roma, suor Emma Zordan, con la sua testimonianza ha arricchito il percorso di formazione delle “novizie” – una quarantina quelle presenti nell’aula magna dell’istituto, tante altre collegate da remoto. Da oltre sette anni Sr Emma presta servizio di volontariato nel carcere romano, animando un laboratorio di scrittura creativa. La religiosa ha raccontato tutto il percorso che l’ha condotta a Rebibbia. Le sue inquietudini, il coraggio e la forza ritrovati dopo aver varcato il cancello del carcere e i tanti che si sono aperti e richiusi prima che arrivasse alla sezione penale, quella dove avrebbe svolto la sua attività di volontaria. Lo scorso 18 novembre presso la sede nazionale dell’Usmi (Unione Superiore Maggiori d’Italia) a via Zanardelli a Roma, suor Emma Zordan, con la sua testimonianza ha arricchito il percorso di formazione delle “novizie” – una quarantina quelle presenti nell’aula magna dell’istituto, tante altre collegate da remoto. Da oltre sette anni Sr Emma presta servizio di volontariato nel carcere romano, animando un laboratorio di scrittura creativa. La religiosa ha raccontato tutto il percorso che l’ha condotta a Rebibbia. Le sue inquietudini, il coraggio e la forza ritrovati dopo aver varcato il cancello del carcere e i tanti che si sono aperti e richiusi prima che arrivasse alla sezione penale, quella dove avrebbe svolto la sua attività di volontaria. Da alcuni anni vive a Latina dove è responsabile della comunità “san Gaspare” di 29 suore anziane, ma ogni sabato mattina alle otto, immancabilmente, è lì, a Rebibbia, con i pacchi per i suoi amici detenuti. Lo dice apertamente alle consorelle che l’ascoltano attente: “Quella è ora la mia famiglia!”. E in effetti è amica, madre e sorella per tanti detenuti. Anche un piccolo suo gesto, come “portare le caramelle” ha per loro un grande significato. È come una carezza dell’anima. Lo conferma l’altro protagonista dell’incontro all’Usmi: Carmine C., detenuto in regime di semilibertà dopo 16 anni scontati in vari istituti di pena. È stato tra i primi ad incontrare la religiosa “volontaria” a Rebibbia e a collaborare con lei. Proprio il confronto tra i due, a volte intenso, altre volte scherzoso, ha consentito di “far vivere” ai presenti la durezza della vita carceraria e quanto sia importante la presenza di una persona che “da fuori” sappia portare ascolto, affetto, attenzione, speranza. Lo strumento di questo percorso è stato il “laboratorio di scrittura creativa”. Nel suo intervento la religiosa ha ripercorso le tappe di questi anni di lavoro, ricordando i titoli dei libri che hanno raccolto le testimonianze dei detenuti. Fino ad arrivare all’ultima fatica: la presentazione del libro “Non tutti sanno…La voce dei detenuti di Rebibbia” che è stata l’altra ragione dell’incontro. Lo strumento di questo percorso è stato il “laboratorio di scrittura creativa”. Nel suo intervento la religiosa ha ripercorso le tappe di questi anni di lavoro, ricordando i titoli dei libri che hanno raccolto le testimonianze dei detenuti. Fino ad arrivare all’ultima fatica: la presentazione del libro “Non tutti sanno…La voce dei detenuti di Rebibbia” che è stata l’altra ragione dell’incontro. Il volume propone alcune testimonianze dei carcerati sulla speranza, raccolte prima e durante la pandemia. La ragione di questa scelta la spiega il giornalista Roberto Monteforte che ha collaborato con suor Emma alla realizzazione del libro: “Le testimonianze sono proposte a chi è fuori le sbarre, alle persone comuni che si considerano “libere” e che, invece, troppo spesso sono prigioniere dei loro pregiudizi che le rendono incapaci di accogliere”. Su questo punto interviene anche l’avvocato Antonella Pacifico, coinvolta anche lei da suor Emma nel progetto “laboratorio di scrittura in carcere”. Lo fa ricordando la “paura del dopo” espressa da tanti detenuti. “A preoccupare è la violenza che c’è fuori dal carcere, fatta di pregiudizio e prevenzione. Così la pena non si finisce mai di scontarla perché – lo sottolinea citando passi di una testimonianza del libro – lo stigma del carcerato è impresso come un marchio a fuoco indelebile sulla pelle”. Perché la pena non deve avere fine? Perché a pagare devono essere anche le famiglie innocenti di chi la sta scontando? Come si affronta il dopo? Una volta fuori, cosa sarà il reinserimento sociale del detenuto? Il tema si presenta in ogni parte del mondo e coinvolge le “novizie” giunte a Roma da tutti i continenti. La testimonianza forte è l’appello lanciato da suor Emma. “Siamo troppo poche. Venite anche voi a dare testimonianza di fede nel servizio ai carcerati”. “Quante corone del Rosario mi chiedono! – aggiunge la religiosa - E io li invito a recitare il Padre Nostro”. Perché si può evangelizzare anche in questo modo: offrendo ascolto e amicizia. La testimonianza di Carmine commuove. Racconta del suo dialogo nelle notti di solitudine in cella con il Crocifisso. “Lo prego, ci parlo, mi confido, ci litigo…”. Suor Rosanna Costantini responsabile dell’area formativa dell’Usmi lo aveva già sottolineato all’apertura dell’incontro: la missione oggi è offrire testimonianza nella vita concreta, nell’amore per gli ultimi, “Come ci ha insegnato Papa Francesco che ha celebrato la sua prima Coena Domini non in Vaticano, ma nel carcere minorile di Casal di Marmo lavando i piedi ai ragazzi detenuti. Questa è la Chiesa in uscita al servizio degli scartati!”. C’è chi ha assicurato che chiederà alla madre generale della propria Congregazione la possibilità di seguire la strada indicata da suor Emma. Ecco quando una testimonianza arriva al cuore! Verrebbe da dire un obiettivo è stato raggiunto. Ma resta quello più difficile: arrivare al cuore di chi è abituato a giudicare senza compassione e aiutarlo a scoprire la fraternità. Anche verso i fratelli delle carceri. È proprio l’obiettivo del volume “Non tutti sanno…”. Aiutare a capire e a sapere per essere tutti più umani.
Roberto Monteforte